Vis à vis con Carl Gustav Jung

Pubblicato in Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura, vol. 12, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011.

La personalità misteriosa e poliedrica di Carl Gustav Jung, come uomo, ricercatore e analista, è ancora oggi fonte di numerose ricerche e dibattiti: nonostante i documenti ai quali è possibile attingere siano numerosi (libri autografi, epistolari, resoconti di alcuni seminari da lui condotti, testi redatti dagli allievi sotto la sua supervisione etc.) la sua esperienza nel campo della psicologia resta controversa: Sonu Shamdasani (2005)[1] sostiene che il prosperare di molte e diverse biografie dello psicoanalista svizzero – ognuna delle quali promette di svelare nuovi e intriganti segreti – ha contribuito ad avvolgere la figura di Jung in una sempre più fitta trama di voci, insinuazioni, gossip e fantasie, sino a rendere la sua vita assimilabile a quella di una “fiction”.

In questa grande mole di biografie postume (Bennett, 1961, Noll, 1994, Bair, 2003, solo per citarne alcune)[2], ammonisce Shamdasani[3], troppo spesso le interpretazioni e le congetture personali relative all’opera e alla vita di Jung, vengono presentate come “fatti”, ovvero eventi/aspetti appartenenti al reale, provocando una caotica difficoltà nel distinguere tra riferimenti biografici romanzati e la sua effettiva figura storica. Il ricercatore indiano inoltre sottolinea un aspetto interessante, e allo stesso tempo inquietante, affermando che nemmeno i professionisti junghiani sarebbero immuni da tale difficoltà di discernimento tra “leggende psicoanalitiche” – che spesso identificano Jung con la figura archetipica del Ciarlatano[4] – e documenti storici[5].

Infine un altro dato che contribuisce ad aumentare i fraintendimenti e le “invenzioni” che circondano il ricordo di questo pioniere della psicoanalisi, è sicuramente la presenza di molto materiale ancora inedito – e in possesso degli eredi – che aspetta di essere pubblicato. In questo articolo, dunque, mi occupo di approfondire l’immagine di “Jung-analista” riferendomi strettamente a delle fonti speciali: i ricordi e i diari analitici di alcuni tra i suoi pazienti e/o allievi, infatti chi meglio di un paziente può raccontare (con tutti i limiti e le distorsioni transferali del caso) il modo di essere e di lavorare del proprio terapeuta? Il fine di questa ricerca – che sicuramente richiede ancora moltissimi approfondimenti – è offrire un contributo utile a ricostruire, sulla base di testimonianze dirette, il modo in cui C.G. Jung lavorava e, tra luci e ombre, viveva il setting al di là di ogni successiva interpretazione o leggenda.

La prima testimonianza che presento è quella che ci ha lasciato Barbarah Hannah (1891-1986), una studiosa di Storia dell’Arte che, nel 1929, si era recata a Zurigo per sottoporsi ad analisi con Jung, divenendo poi psicoterapeuta e una delle sue collaboratrici più importanti. La Hannah è autrice del libro “Vita e opere di C. G. Jung”[6], un testo fondamentale per conoscere la personalità e l’approccio metodologico dello studioso svizzero: nell’introduzione ella chiarisce subito di non aver scritto una biografia ufficiale di Jung, bensì di aver reso “una testimonianza, un ritratto della sua vita qual è apparsa a me[7].

Siamo nel 1929 a Zurigo, in questo periodo Jung è impegnato nel seminario relativo all’analisi dei sogni di un uomo[8] che teneva il Mercoledì mattina presso i locali del Club Psicologico; la Hannah riferisce così il loro primo incontro:

Conservo ancora vivissimo il ricordo di Jung quale mi apparve durante il mio primo colloquio con lui il 14 gennaio 1929. Contava allora cinquantaquattro anni e, a parte i capelli grigi, anzi quasi bianchi, aveva ancora l’aria di un uomo giovane e straordinariamente vigoroso. E’ difficile darne una descrizione a parole, perché la sua espressione mutava di continuo. Ora si mostrava serissimo, poi qualcosa lo divertiva ed era, se è lecito dirlo, come se trasparisse un raggio di sole; […]

Sapeva esprimere meglio di ogni altra persona da me incontrata, un’idea con un cenno quasi impercettibile, e comunque i suoi occhi, che durante l’analisi erano fissi in quelli dell’analizzando al di sopra delle lenti, comunicavano quasi altrettanto delle sue parole. […]

Quando venne a prendermi in sala d’aspetto, teneva in mano la pipa ed era accompagnato dal suo grosso schnauzer grigio – il cane si chiamava Joggi, n.d.r. – che era evidentemente abituato a trarre conclusioni per proprio conto sulle persone venute a parlare col suo padrone. […] Piuttosto scossa da così forti impressioni, mi chinai a carezzare il cane, gesto da cui fui distolta da Jung che mi chiese con tono asciutto “E’ venuta da Parigi – dove all’epoca vivevo – per vedere il mio cane o me?”. […]

Mi resi conto seduta stante che Jung poteva essere più diretto, addirittura duro e spietato, di ogni altra persona da me conosciuta […] eppure si sentiva in lui un uomo di grandissimo cuore, capace di rara simpatia […] erano due qualità che era dato avvertire simultaneamente; […] quel primo colloquio bastò a convincermi che la psicologia di Jung era incarnata nell’uomo Jung, il quale era assai più convincente di tutte le sue opere[9].

Anche la scrittrice Elizabeth Shepley Sergeant (1881-1965) riferisce di aver incontrato l’inseparabile cane del Dottore ed inoltre svela come Jung permettesse a Joggi di essere presente durante le sedute (come peraltro faceva anche Freud con i suoi cani di razza chow-chow):

Joggi, l’amico speciale del Dottore riesce sempre a intrufolarsi dietro il visitatore nello studio… e a prendere parte con silenziosa partecipazione al colloquio. Avevo notato durante la prima seduta, che la mano di Jung… si allungava di tanto in tanto a carezzare la testa ispida. E mi colpì il pensiero che questo contatto con una creatura istintiva, tutto pelo, servisse, chissà, per riequilibrare l’arcana intuizione dello psicologo, la sua mente penetrante… come una comunicazione rivolta al visitatore e a se stesso[10].

Dopo quel primo incontro la Hannah non iniziò l’analisi con Jung ma, sotto sua diretta indicazione, per i due anni successivi si sottopose a ben tre diversi training analitici; Jung è stato il primo psicoanalista a sostenere la necessità di un’analisi personale approfondita, da lui chiamata “analisi didattica”, quale presupposto fondante della professione analitica[11]. A questo proposito vediamo la testimonianza di Tina Keller (1887-1986), una delle prime pazienti di Jung (fu in analisi con lui dal 1915 al 1924), divenuta poi a sua volta psicoterapeuta:

Subito dopo la fine della mia terapia […] provai un forte desiderio di tornare a studiare, infatti avevo avuto un’esperienza scolastica incompleta, cosa del tutto normale per una ragazza a quei tempi […].

Il dottor Jung considerava i miei studi non necessari. Egli infatti riteneva che un’analisi personale profonda fosse la sola preparazione indispensabile per diventare un analista. Egli era a favore degli analisti “laici” e infatti a quel tempo c’erano un certo numero di terapeuti che non avevano avuto una formazione accademica[12].

Nonostante alcuni autori e alcune “scuole per futuri analisti” tengano a sottolineare la differenza sostanziale tra analisi personale (rivolta all’inconscio) e analisi didattica (rivolta all’acquisizione degli elementi base per la professione dell’aspirante analista)[13], in realtà negli scritti lasciati da Jung non viene fatta alcuna menzione relativamente a tale distinzione programmatica. Ritornando alla vicenda formativa di Barbara Hannah sappiamo che ella affrontò la sua analisi prima con Tony Wolff, poi con Peter Baynes ed infine con Emma Jung:

“…Emma Jung era appena agli esordi come analista quando cominciai a lavorare con lei nell’estate del 1930. Se mi prese con sé fu soltanto perché avevo sognato che lei conferiva una nuova dimensione alla mia vita e Jung le fece notare che non poteva rifiutare una simile sfida dell’inconscio[14].

Un iter molto simile è stato raccontato da Catherine Rush Cabot e da Tina Keller, quest’ultima racconta:

Dopo aver incontrato Jung […] ho iniziato la mia analisi con Maria Moltzer, una collaboratrice del Dr. Jung”

E’ importante ricordare che in alcuni scambi epistolari tra Freud Ferenczi e Jones, Maria Moltzer, che in principio era stata paziente di Jung, viene indicata come la sua “innominata/innominabile” analista, egli infatti ha più volte sostenuto di essersi sottoposto ad analisi ma senza rivelare mai l’identità del misterioso personaggio in questione[15]

 Poi, in seguito ad un mio sogno, venni “trasferita” a Jung. Mi dispiacque lasciare la mia analista ma sapevo che anche questo passo era parte del mio destino[16].

Un’altra assonanza che ritroviamo in questi percorsi è che, come nel caso della Hannah, anche il passaggio analitico Moltzer-Jung della Keller venne “stabilito” da un sogno. Così come per le altre pazienti citate, anche Catherine Rush Cabot (1894-1976), dopo aver avuto una prima seduta con Jung nell’autunno del 1929, era stata poi seguita settimanalmente da Tony Wolff e poi, con meno frequenza, di nuovo da Jung[17]. La Cabot è stata una delle pochissime persone ad aver trascritto dei resoconti dettagliati delle sedute analitiche svolte insieme a lui (era solita scrivere mentre era in seduta); i diari analitici sono stati trovati dopo la sua morte dalla figlia Jane che si è poi impegnata a pubblicarli nel 2001, offrendo un’importante testimonianza sullo spazio analitico vissuto tra Jung e la madre[18], come vedremo più avanti. Un altro caso simile è quello vissuto da Christiana Morgan (1897-1967) e che ci viene raccontato da Claire Douglas, sua biografa:

Christiana incontrava Jung più volte alla settimana, per lunghe sedute di due ore, e saltuariamente vedeva Toni Wolff[19].

Pare che questo tipo di trattamento, in cui il paziente affrontava la terapia con Jung in concomitanza con sedute condotte da altri analisti (ad esempio quelli sopra citati) nello stesso periodo, fosse inizialmente un approccio sperimentale, divenuto poi una pratica consueta e che avesse l’accezione di una sorta di supervisione[20] (di Jung stesso? n.d.r.). La dinamica triangolare, che veniva a crearsi tra il paziente e gli altri due analisti, faceva emergere potenti vissuti edipici: nei diari della Cabot, ad esempio, troviamo che ella cominciò a proiettare su Jung le qualità di un padre idealizzato e perfetto, riversando, invece, transferalmente sulla Wolff tutta la parte negativa legata al complesso materno; tutta questa dinamica, però, non sembra mai essere stata oggetto di analisi e interpretazione da parte dei due analisti[21].

Quanto riportato sin ora, ci permette di constatare che coloro i quali intendevano avvicinarsi a Jung dovevano entrare in contatto anche con i suoi più stretti allievi/collaboratori, tutti appartenenti all’originario Club Psicologico fondato nel 1916. Dopo i primi anni di esperienza come analista, Jung iniziò a maturare l’idea che la terapia non dovesse rimanere confinata – in maniera rassicurante per gli analisti stessi? – solo all’interno del suo studio, così lavorò per predisporre un ambiente terapeutico più esteso e con caratteristiche tali da rinforzare la trasformazione psichica dei pazienti:

Non era d’accordo con gli analisti freudiani i quali evitavano ogni rapporto sociale con i loro pazienti al di fuori della situazione analitica, e cominciava a sentir la necessità di occasioni in cui poter conoscere i propri pazienti e le reazioni di questi in un contesto più simile alla vita esterna […]i pazienti avevano estremo bisogno di incontrarsi con altre persone con i loro stessi problemi e interessi, con cui scambiare opinioni e intrattenersi e Jung organizzò anche conferenze sulla psicologia e argomenti affini, incoraggiando allievi e pazienti a mettere alla prova le proprie capacità espositive”.[22]

Nonostante Jung abbia sempre affermato di essere contrario ad ogni forma di terapia gruppale e che la meta dello sviluppo dovesse essere individuale, sembra che egli avesse attribuito al gruppo di persone che gli gravitavano intorno, il ruolo di contenitore[23] e di amplificatore rispetto alla sua condotta sperimentale, in virtù del potere che egli stesso aveva percepito nel collettivo. Iniziamo ora a vedere nel dettaglio cosa racconta la Hannah di Jung rispetto agli elementi del contratto analitico e del setting:

Cominciai l’analisi didattica con lui nel gennaio 1931 […] e la mia analisi con Jung durò molti anni; dapprima mi ricevette due volte a settimana, poi una, quindi solo di tanto in tanto, quando potevo comprovare che fosse necessaria; in tal modo riuscii a passare con naturalezza dal transfert a un rapporto obiettivo[24].

Da queste righe si evince che la frequenza settimanale delle sedute svolte da Jung con i suoi pazienti si attestasse da un minimo di due ad un massimo di quattro alla settimana, così come espresso dallo studioso stesso in “Pratica della psicoterapia” (1935)[25]. Un’altra testimonianza a riguardo ci arriva da Joseph L. Henderson (1903-2007), uno dei più importanti analisti junghiani, morto pochi anni fa:

Nell’anno in cui ho lavorato con lui regolarmente, lo vedevo tre volte a settimana e nel periodo primaverile due volte a settimana e nell’altra ora settimanale lavoravo con il Dr. Baynes, il suo assistente[26].

Dalle testimonianze che abbiamo a disposizione non sembra che l’andamento delle sedute con Jung prevedesse una continuità precisa e concordata nel tempo, bensì gli incontri venivano spesso fissati ad hoc, in base agli impegni di Jung (servizio militare, viaggi all’estero etc.) e alla disponibilità di tempo dei pazienti stessi: la Cabot per esempio, era solita fare viaggi molto frequenti, reiterando così, con la figlia Jane, lo stesso comportamento abbandonico che aveva subito da sua madre e che replicava anche in terapia con le sue frequenti assenze[27], tuttavia neppure questa dinamica sembra essere stata oggetto di discussione durante la sua analisi; nel caso di Christiana Morgan invece pare che il controtransfert di Jung, e il suo desiderio di sostenere il lavoro delicato di immaginazione attiva portato avanti dalla paziente, fosse così intenso da indurlo a vederla, in un certo periodo, quasi tutti i giorni[28].

Per quanto riguarda l’onorario sappiamo dai diari della Cabot che ella pagava per ogni seduta, sia con Jung che con Toni Wolff, 20 franchi[29]. Nel caso invece di Margaret Flinters – un’aspirante scrittrice che si era rivolta a Jung in preda ad un forte esaurimento nervoso scaturito dal fallimento del suo matrimonio e da un rapporto estremamente conflittuale con il padre – sembra che Jung non si sia mai fatto pagare:

Non capisco bene il transfert, ma si verificò una cosa del genere: Jung divenne una figura paterna molto più tollerante, molto meno esigente, e naturalmente l’amore represso che portavo a mio padre si riversò tutto su di lui, che lo trovò – lo so – maledettamente scomodo. Per lui deve essere stata una prova tremenda. Ma la cosa divertente è che non ricordo che mi abbia mai mandato una parcella[30].

La Flinters inoltre riporta un altro aspetto interessante del setting, confermato dalle esperienze di altri pazienti:

“Non l’ho mai visto prendere un appunto su di me”[31].

In merito al modo in cui Jung si relazionava con lo spazio analitico, continuiamo a leggere le parole della Hannah:

Prima della malattia che lo colpì nel 1944, Jung non analizzò mai nella sua biblioteca, bensì in una stanza più piccola e isolata, annessa alla prima, che costituiva un gabinetto di consultazione ideale.

L’analizzando prendeva posto in una comoda poltrona e Jung accanto alla scrivania ma standone discosto, in modo da trovarsi proprio di fronte al paziente.

Ricordo che Peter Baynes mi disse che, avendogli chiesto consiglio per risolvere certe difficoltà, Jung gli domandò dove si sedesse quando analizzava, e alla risposta di Baynes esclamò: “Ma per l’amor del cielo, si decida ad uscire da dietro la scrivania!”.

E Peter soggiunse: “Non l’avrei mai creduto, ma appena l’ho fatto le difficoltà sono scomparse”[32].

In queste righe troviamo un elemento che distinse inequivocabilmente l’approccio terapeutico di Jung da quello di Freud: in disaccordo con il modello medico-psicoanalitico freudiano che prescriveva al paziente l’utilizzo suggestivo del lettino durante la terapia, relegando così l’analista al ruolo di “osservatore neutro”[33], Jung maturò presto l’idea della terapia come processo ermeneutico e dialettico basato sul confronto tra due persone[34], che mettono a disposizione le proprie esperienze e conoscenze al fine di produrre, nella persona sofferente, un cambiamento psichico; in quest’ottica il terapeuta non è più il soggetto che agisce, ma egli stesso è compartecipe del processo di sviluppo individuale[35], che trova nella modalità “vis-à-vis” del setting la sua forma espressiva più consona. Ancora:

D’estate col bel tempo, Jung amava analizzare nella stanza in giardino […]

Marie Louise von Franz ci ha dato un vivido racconto di come Jung analizzasse in quella stanza: si serviva di ogni evento naturale, ad esempio un insetto…il rumoreggiare delle onde del lago e simili, come elementi sincronisticamente connessi con ciò che si andava dicendo durante l’analisi[36].

Se lavorava in casa, amava passeggiare su e giù, soprattutto quando era intento ad analizzare i sogni. Mi disse che le lunghe ore che dedicava alla pratica gli impedivano di concedersi sufficiente esercizio fisico ed era per questo che sentiva il bisogno di muoversi passeggiando […] Jung sapeva quando quel suo modo di fare era fonte di disturbo per l’analizzando… tant’è che venni a sapere che alcune persone che avevano analizzato con lui per anni, mai lo avevano visto andare su e giù per la stanza! Nel complesso l’analisi con Jung era assolutamente informale e differiva da individuo a individuo”.

Il setting di Jung ci appare, dunque, imprevedibile, dinamico, “allargato” e quindi lontano dall’idea di un “temenos” silenzioso e distaccato dalla realtà: egli utilizzava la sua vita personale (vedi le “passeggiate” o il ruolo del cane Joggi) e tutto ciò che accadeva durante la seduta – dentro e fuori la stanza – per amplificare l’esperienza dei vissuti personali del paziente, così come più tardi farà anche Milton Erickson (lo psicoterapeuta americano che ha riscoperto l’ipnosi in ambito psicoterapico) parlando di “principio di utilizzazione”[37]. La Hannah ci dice che la terapia con lui assumeva caratteristiche anche molto diverse in relazione al paziente specifico che aveva di fronte, confermando la stessa affermazione di Jung:

L’individuale è l’assolutamente unico, l’imprevedibile, l’ininterpretabile, il terapeuta deve in questo caso rinunciare a tutte le sue tecniche… limitandosi a un procedimento puramente dialettico e cioè a un atteggiamento che eviti qualsivoglia metodo[38].

All’interno del dialogo tra analista e paziente il lavoro sul sogno occupava un posto fondamentale[39], infatti ripercorrendo i suoi scritti appare evidente come la dimensione onirica abbia rappresentato per Jung il fondamento empirico della propria teoria[40]. Una delle testimonianze dirette che illustra come Jung lavorasse con il sogno, è quella di “Anna Maria”, una ragazza di diciotto anni affetta da anoressia nervosa, insonnia ed altri sintomi severi.

La paziente aveva come sogno ricorrente l’immagine di un ragno femmina che, al centro della ragnatela, dirigeva quello che sembrava il traffico lungo i fili trasparenti con segnali che lampeggiavano quando apriva e chiudeva un grande occhio:

Quando mi fece comprendere che in realtà ero in potere di mia madre ricevetti un grosso colpo, perché pensavo di volerle bene più di ogni altra cosa al mondo […]

Ma fece scattare qualcosa.

Ma a mia madre non piacque un granchè dato che quando cominciai a ristabilirmi diventai molto più indipendente.

Il Dottor Jung mi fece poi notare che mia madre resisteva per continuare ad avermi in suo potere e prolungare in modo innaturale il legame biologico tra di noi.

Mi consigliò di insistere ed avere una stanza separata in albergo, e feci così. Mi costò un grande sforzo, ma per la prima volta dopo anni avevo preso una decisione su un punto importante e ciò mi rese molto euforica.

Mia madre era furiosa e voleva farmi interrompere il trattamento, ma avevo ricominciato a mangiare e non poteva negare un certo miglioramento[41].

Aniela Jaffè, curatrice del libro autobiografico di Jung “Ricordi sogni riflessioni”[42], racconta che un giorno era arrivata in seduta desiderosa di discutere un sogno con lo psicoanalista svizzero ma quel giorno egli era talmente assorbito da un pensiero assillante sul quale voleva lavorare, che non c’era verso di fermarlo:

In sedute simili occorreva una buona dose di forza per interromperlo e tirare in ballo le proprie faccende… ma se il paziente si lasciava trascinare senza pensare alle lancette dell’orologio che avanzavano a poco a poco… i pazienti ricevevano la risposta senza aver fatto la domanda. […]

Con ogni probabilità la sua tecnica era diversa con ogni paziente… Qualche volta parlava dei genitori, ma non con me. Una volta ho cercato di raccontargli di mia madre e lui ha detto “Non perda tempo”[43].

L’assenza di un metodo sistematizzato a livello teorico e clinico, come quello della “meta psicologia” freudiana, ha contribuito purtroppo a mettere in ombra la psicologia analitica di Jung – tant’è vero che oggi sono pochissimi i corsi universitari di Psicologia Dinamica che si occupano dell’esperienza junghiana – infatti se andiamo ripercorrere l’evoluzione del pensiero clinico in ambito psicoanalitico vedremo che quasi tutti gli autori – vedi M. Klein, D. Winnicott, W. Bion, H. Kohut, O. Kernberg – si riferiscono alla matrice pulsionale freudiana, che offre sicuramente dei punti di riferimento teorici e di prassi psicoterapica ben codificati ed illustrati dai casi clinici.

Entrando ora nello specifico del modo di condurre il setting, ciò che emerge fortemente dai resoconti di questi pazienti è che Jung e i suoi allievi/collaboratori nel lavoro analitico utilizzavano un comportamento piuttosto “direttivo” – ovvero davano indicazioni precise sulle scelte da compiere, sui significati di alcuni eventi – e poco centrato sul vissuto del transfert/controtransfert, in contrasto con l’odierna attenzione al tema dei confini e dei limiti all’interno del setting. A questo proposito lascia pensare il fatto che i pazienti/allievi di Jung dovessero sostenere un’analisi in contemporanea con lui ed altri collaboratori, modalità che oggi, proprio per l’importanza che gli psicoanalisti di ogni corrente danno al tema del rapporto transferale, solleverebbe aspre discussioni.

In questo senso anche l’esperienza analitica tra Jung e Christiana Morgan è rivelatrice[44]. Quando Christiana si rivolge a Jung, nel 1926, era una donna tormentata da un matrimonio insoddisfacente contratto con Will Morgan e dall’amore per il suo amante Henry Murray il noto psicologo americano – a sua volta sposato e che lo resterà fino alla morte della moglie, molti anni dopo – che negli anni ’30, ad Harvard, aveva presentato la prima ricerca sui bisogni legati al comportamento psicologico (è necessario ricordare che la Morgan e Murray sono anche gli autori del T.A.T., uno dei test proiettivi più utilizzati in ambito sperimentale)[45].

Jung era già l’analista di Murray e successivamente accettò anche di condurre qualche seduta con Will, marito di Christiana (Jung giudicherà Will come un “mammone”, inviandolo poi alla Wolff per proseguire la terapia)[46]. La paziente stava cercando di risolvere, attraverso la sua analisi con Jung, il dilemma sentimentale relativo alla storia con Henry – il quale nel frattempo si stava già affermando come psicologo e ricercatore – e nei diari che ci ha lasciato la Morgan, troviamo alcuni passi delle sue sedute analitiche:

“[è Jung che parla a Christiana, n.d.r.] Tutti noi dobbiamo fare qualcosa di collettivo e contribuire al progresso del mondo. Una donna che mette al mondo un figlio sta facendo qualcosa di utile per la generazione successiva. Se riuscirai a “creare” Murray, rendendolo un uomo completo, darai il tuo contributo a questa generazione […]

La dinamite che stai maneggiando può condurti all’autodistruzione o alla scoperta di una strada nuova… sei una pioniera e la tua funzione è quella di creare un uomo. Alcune donne mettono al mondo dei bambini ma creare un uomo è più difficile… L’importanza delle donne come te è raramente riconosciuto, ma dovrebbe esserlo […]

Questa relazione sarà terribilmente dispendiosa per la tua libido. Tu dovrai fare il possibile per riuscire a conservarla… in questo modo riuscirai a diventare una donna veramente saggia, una femme inspiratrice, e a dare a un uomo qualcosa che non ha. Rivolgendosi a te potrà essere creato[47].

Di fronte alla confusione di Christiana, Jung propone una soluzione ben precisa: che la paziente dedichi la sua vita a sostenere e ad ispirare Murray nel ruolo di amante, la stessa soluzione che egli aveva trovato per la sua vita con il menage a trois tra lui, la moglie e Toni Wolff, nel ruolo di donna “Anima” e musa, senza però prendere pienamente in considerazione la figura di Christiana indipendentemente dall’amante. Nonostante Christiana fosse una psicologa capace e talentuosa, rimarrà sempre all’ombra di Murray (addirittura arrivando a scomparire come autrice del T.A.T.!), morendo suicida all’età di 69 anni.

Ad onor del vero in questo caso sicuramente hanno inciso nell’atteggiamento di Jung, non solo gli aspetti personali ma anche quelli culturali dell’epoca in cui viveva, in relazione al modo di considerare il ruolo dell’uomo e della donna nella società. Nella seduta che intrattiene con Christiana, Jung parla della sua stessa esperienza di pioniere della psicoanalisi, consapevole di avere tra le mani qualcosa di molto potente, trasformativo e allo stesso tempo potenzialmente pericoloso per sé e per le persone che entravano in contatto con lui (vedi anche l’esperienza con Sabina Spielrein)[48].

Tutte le testimonianze che abbiamo finora riportato confermano, a mio avviso, l’esperienza di Joseph Henderson[49] il quale ha scritto che la figura di Jung non consente di essere inquadrata in una prospettiva coerente o definitiva. Il metodo di Jung era rappresentato dalla sua stessa personalità – misteriosa, cangiante, intuitiva, a tratti psicotica, profetica – e i pazienti che hanno lavorato con lui sono stati sottoposti non solo ad un’esperienza di trasformazione interiore ma anche alla “scoperta di una strada nuova” come ci racconta Tina Keller:

Il dottor Jung ci esortava ad affrontare ogni nuovo caso, ogni sogno, come se non esistesse alcuna teoria, e come se dovessimo scoprire tutto da soli.

Certamente egli aveva in mente i propri inizi. Dalla sua autobiografia apprendiamo che quando si sentiva in difficoltà, cercava di vedere ciò che i suoi pazienti avrebbero spontaneamente prodotto.

Questi gli raccontavano i loro sogni e le fantasie, lui rivolgeva qualche domanda per stimolare i loro pensieri e le associazioni ed si accorse che le interpretazioni emergevano naturalmente da queste risposte.

Sono molto contenta di essere stata allieva del dottor Jung in quel periodo… ma d’altra parte, vedo i pericoli notevoli, soprattutto per un intuitivo, nell’essere così incoraggiato a trovare la propria strada.

Sono stata fin troppo pronta a vedere sempre nuove possibilità e ho sperimentato più di quanto fosse prudente per un principiante.

Quando il dottor Jung mi inviava dei pazienti, raramente forniva indicazioni o consigli. Naturalmente, quando ho avuto l’occasione, ho discusso il mio caso con lui, ma non andavo spesso a Zurigo e raramente è venuto a Ginevra, così non ho avuto una guida tanto quanto sarebbe stato auspicabile[50].

Egli amava ripetere “ars totum requirit hominem” (ovvero l’arte coinvolge l’uomo nella sua interezza), ricordando con questa frase che ogni psicoterapeuta è il metodo che utilizza e che il grande fattore di guarigione è la personalità stessa del terapeuta:

ed essa non è data a priori, non è uno schema dottrinario, ma rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto. Le teorie sono inevitabili, ma come meri sussidi.

Occorrono moltissimi punti di vista teorici per dare un quadro approssimativo della multiformità della psiche… è possibile esercitare la terapia in mille modi […] e con tutti questi sistemi si possono ottenere dei risultati… e si scopre che quel determinato rimedio, forse in sé assurdo, era quello giusto non per quella “nevrosi”, ma per quella persona, mentre a un’altra persona avrebbe fatto l’effetto contrario[51].

Questo passo rispecchia come Jung effettivamente si muovesse nel lavoro con i suoi pazienti, ovvero coinvolgendo completamente sé stesso e la sua vita personale, seguendo con grande fiducia le proprie intuizioni, all’interno di uno spazio analitico dai confini estremamente sfumati e che potremmo definire “corale”, in quanto il gruppo di collaboratori che si era costituto intorno a lui era, come abbiamo visto, parte integrante del trattamento individuale.

L’approccio terapeutico di Jung, a mio avviso, è quello che ha colto intuitivamente l’aspetto che, nelle ricerche empiriche sull’efficacia della psicoterapia, è stato riconosciuto fino ad oggi come il fattore terapeutico per eccellenza ovvero “la relazione”[52], confermando indirettamente il fatto che è il rapporto unico e irripetibile tra paziente ed analista ad essere il più importante strumento di trasformazione psichica, a prescindere dal “metodo” utilizzato.

[1] Shamdasani S., 2005, Jung stripped bare by his biographers, even, pag. 2, Karnac Books.

[2] A. Bennet, 1961, C. G. Jung, Barrie and Rockliff, London.

Noll R., 1994, Jung il profeta ariano, Mondadori, Milano.

Hannah B., 1976, Vita e opere di C. G. Jung, trad. it. 1980, Rusconi, Milano.

Stern P., 1976, C. G. Jung: The Haunted Prophet, George Braziller Ed.

Brome V., 1978, Vita di Jung, trad. it. 1994, Bollati Boringhieri, Milano.

Gerhard Wehr, 1985, Jung. La vita. le opere, il pensiero, trad. it. 1987, Rizzoli, Milano.

Bair, D., 2003, Jung: a biography, pag. 377, Little, Brown and Co., Boston.

Sonu Shamdasani, 2005, Jung messo a nudo dai suoi biografi, anche, Ma.gi, Roma.

[3] Shamdasani S., 2005, Jung stripped bare by his biographers, even, pag. 4, Karnac Books.

[4] Giordano G., 2011, Uno nessuno centomila,

[5] Shamdasani S., 2005, Jung stripped bare by his biographers, even, pag. 2-3, Karnac Books.

[6] Hannah B., 1976, Vita e opere di C.G. Jung, trad. it. 1980, Rusconi, Milano.

[7] Ibidem, pag 7.

[8] Jung C.G., 1991, Analisi dei sogni, seminario tenuto nel 1928-1930, trad. it. 2003, Bollati Boringhieri, Torino.

[9] Hannah B., 1976, Vita e opere di C.G. Jung, trad. it. 1980, pag. 268-270, Rusconi, Milano.

[10] Jung C.G., (a cura di) McGuire W., Hull E., 1977, Jung parla, trad. it. 1995, pag. 87, Adelphi, Milano.

[11] Jung C.G., 1951, Questioni fondamentali di psicoterapia, trad.it. 1981, Opere vol. XVI, Bollati Boringhieri, Torino.

[12] Keller T., Some Memories and Reflections, basato su un discorso in memoria di Jung presso l’istituto C. G. Jung di Zurigo, 8 luglio 1971.

[13] De Franco, L., Lo Cascio A.,1992, Jung e la formazione dell’analista, in (a cura di) Carotenuto A., Trattato di Psicologia Analitica, UTET, Torino.

[14] Ibidem, pag. 283-284

[15] Antonelli G., 1994, L’immagine di Jung negli epistolari freudiani, Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. 36, Liguori, Napoli.

[16] Keller T., Some Memories and Reflections, basato su un discorso in memoria di Jung presso l’istituto C. G. Jung di Zurigo, 8 luglio 1971.

[17] Ivi.

[18] Cabot Reid, J., 2001, Jung, my mother and I, the analytic diaries of Chaterine Rush Cabot, Daimon.

[19] Douglas C., 1993, Interpretare l’ignoto, la vita di Christiana Morgan un talent rimasto nell’ombra, trad. it. 2006, Ma.Gi., Roma.

[20] Bair, D., 2003, Jung: a biography, pag. 377, Little, Brown and Co., Boston.

[21] Morley R., 2007, The analysand’s tale, pag 126-130, Karnac Books, London.

[22] Hannah B., 1976, Vita e opere di C.G. Jung, trad. it. 1980, pag. 181-182, Rusconi, Milano.

[23] Morley R., 2007, The analysand’s tale, pag 125, Karnac Books, London.

[24] Ivi.

[25] Jung, C.G., 1935, Pratica della psicoterapia, trad. it. 1981, Opere vol. 16, pag. 23, Bollati Boringhieri, Torino

[26] Henderson R., Henderson J., 2008, Living with Jung, interviews with Jungian analysts, Spring Journal Books, Louisiana.

[27] Morley R., 2007, The analysand’s tale, pag 125, Karnac Books, London.

[28] Douglas C., 1993, Interpretare l’ignoto, la vita di Christiana Morgan un talent rimasto nell’ombra, trad. it. 2006, pag. 168, Ma.Gi., Roma.

[29] Morley R., 2007, The analysand’s tale, pag 124, Karnac Books, London.

[30] Brome V., 1978, Vita di Jung, trad. it. 1994, pag. 279-280, Bollati Boringhieri, Milano.

[31] Ibidem, pag. 279.

[32] Hannah B., 1976, Vita e opere di C.G. Jung, trad. it. 1980, pag. 284, Rusconi, Milano.

[33] Trevi M., 1983, Per uno junghismo critico, Rivista di psicologia analitica, vol. 28, pag. 189, Astrolabio, Roma.

[34] Jung, C.G., 1935, Pratica della psicoterapia, trad. it. 1981, Opere vol. XVI, pag. 7, Bollati Boringhieri, Torino.

[35] Ibidem, pag.12.

[36] Hannah B., 1976, Vita e opere di C.G. Jung, trad. it. 1980, pag. 284, Rusconi, Milano.

[37] Erickson M. H., Rossi E. L., 1979, Ipnoterapia, Astrolabio, Roma.

[38] Jung, C.G., 1935, Pratica della psicoterapia, trad. it. 1981, Opere vol. XVI, pag. 11, Bollati Boringhieri, Torino.

[39] Il suo modo di lavorare con i sogni è ampiamente descritto in: Jung C.G., 1991, Analisi dei sogni, seminario tenuto nel 1928-1930, trad. it. 2003, Bollati Boringhieri, Torino.

[40] Jung C.G., 1991, Analisi dei sogni, seminario tenuto nel 1928-1930, trad. it. 2003, pag. 9, Bollati Boringhieri, Torino.

[41] Brome V., 1978, Vita di Jung, trad. it. 1994, pag. 235-236, Bollati Boringhieri, Milano.

[42] Jung C.G., 1961, (a cura di) Jaffè A., Ricordi sogni riflessioni, trad. it. 1978, Rizzoli, Milano.

[43] Brome V., 1978, Vita di Jung, trad. it. 1994, pag. 282-283, Bollati Boringhieri, Milano.

[44]Il contributo di Christiana Morgan per le ricerche di Jung relative all’immaginazione attiva è stato fondamentale, infatti sue sono le visioni e i  disegni interpretati e discussi da Jung in un seminario tenuto negli anni 1930-1934 e successivamente edito: Jung C.G., (a cura di) Douglas C., 2004, Visioni: appunti del seminario tenuto tra il 1930-1934, Ma.gi, Roma.

[45] Il T.A.T. (Test di Appercezione Tematica) è un test di personalità di tipo proiettivo, utilizzato da psicologi e psichiatri per valutare i principali aspetti di personalità del soggetto esaminato;. dopo il Test di Rorschach è il test proiettivo più usato e diffuso al mondo.

[46] Douglas C., 1993, Interpretare l’ignoto, la vita di Christiana Morgan un talento rimasto nell’ombra, trad. it. 2006, pag. 168, Ma.Gi., Roma.

[47] Ibidem, pag. 144.

[48] Carotenuto A., 1980, Diario di una segreta simmetria, Astrolabio, Roma.

[49] Henderson J.L.,1975, C.G.Jung: a reminiscent picture of his metod, Journal of Analytical Psychology, 20:114-121.

[50] Keller T., Some Memories and Reflections, basato su un discorso in memoria di Jung presso l’istituto C. G. Jung di Zurigo, 8 luglio 1971.

[51] Jung, C.G., 1935, Pratica della psicoterapia, trad. it. 1981, Opere vol. XVI, pag. 98-99, Bollati Boringhieri, Torino

[52] De Coro, A., Andreassi, S., 2004, La ricerca empirica in psicoterapia, Carocci, Roma.

Luborsky L., Singer B., Luborsky L., 1975, Comparative studies of psychotherapies. Archives of General Psychiatry,32,995.

Smith, M. L., Glass, G. V., 1977, Meta-analysis of psychotherapy outcome studies. American Psychologist, 32, 752-760.